Analisi critica di “Grazie Occidente” di Federico Rampini

2 Ottobre 2024 pubblicato in Libri


Il libro di Federico Rampini , “Grazie Occidente”, esalta con entusiasmo i benefici che la civiltà occidentale ha portato al mondo, sottolineando come la scienza, l’industria e la medicina, abbiano migliorato la vita di miliardi di persone. Non c’è dubbio che l’Occidente abbia contribuito in maniera significativa al progresso materiale dell’umanità. Ma qual è stato il prezzo di tutto questo progresso?

Dovremmo cominciare a comprendere che l’Oriente, ha sempre affondato le sue radici in terreni diversi rispetto a quelli dell’Occidente. Mentre il mondo occidentale corre veloce, con lo sguardo fisso verso il progresso, le conquiste materiali e l’individualismo sfrenato, l’Oriente ha sempre misurato i suoi passi volto a coltivare l’armonia collettiva e il rispetto delle tradizioni, ricercando una spiritualità che ha sempre abbracciato cielo e terra. Qui, la ricchezza non è misurata dal solo denaro, ma dall’equilibrio intimo tra l’uomo, la società e la natura stessa. In questo contesto, l’Occidente, così affamato di conquiste, può sembrare invadente, persino cieco di fronte a quella profondità che si rivela nelle varie filosofie orientali.

Non possiamo però negare che oggi, paesi come la Cina, la Corea, il Giappone e l’India, per esempio, abbiano abbracciato le stesse leggi del profitto e siano promotori della stessa corsa tecnologica dell’Occidente. Tuttavia, questo è stato un processo inevitabile, quasi una resa a un mondo moderno che mette costantemente a dura prova l’anima orientale. Un’anima che fatica ad amalgamarsi con questo progresso frenetico, ben consapevole del pericolo di perdere la propria essenza ed il modo in cui percepisce lo stesso scorrere del tempo.

Se per l’Occidente il tempo è un filo che si dipana in avanti, una continua corsa verso un futuro dove l’innovazione e il superamento di ogni limite rappresentano l’unico traguardo, per l’Oriente, invece, il tempo è sempre stato come un respiro che si espande e si contrae. È un cerchio che ritorna su se stesso, dove il presente è riflesso del passato e germoglio del domani.

Questa concezione ciclica del tempo pone l’accento sull’armonia e la continuità, rendendo la corsa tecnologica dell’Occidente difficile da assimilare, poiché contrasta con una filosofia che valorizza il ritmo naturale delle cose. L’Oriente, pur avendo abbracciato la modernità, non smette di riflettere sulla propria identità. E se il progresso sembra talvolta voler inghiottire tutto, la vera forza dell’Oriente risiede nella sua capacità di piegarsi senza spezzarsi, di adattarsi senza perdersi.

Un equilibrio che per l’Occidente risulta spesso incomprensibile, perché si muove su una logica diversa: quella della coesistenza e non della contrapposizione, della pazienza e non dell’immediata conquista. Alla fine però dovrebbe essere la storia a dare un senso a tutto questo, quella storia che, quando non viene piegata o distorta per interessi meschini, è il faro che serve ad illuminare ogni verità.

E forse, proprio qui che l’Oriente e l’Occidente potrebbero trovare un punto di incontro, una narrazione comune, che racconti non di conquiste e di sopraffazioni, ma di comprensione e rispetto reciproco.

Come diceva Tiziano Terzani:

“Dovremmo tutti interrogarci su ciò che si nasconde dietro la facciata luccicante del progresso”.

È quindi essenziale guardare oltre la superficie, per poter comprendere le ombre che l’Occidente ha proiettato sulle altre nazioni e sulle loro culture.

Questo tentativo non è semplicemente un j’accuse verso il mondo occidentale o quello che Rampini descrive come l’atto di: “Un conformismo dominante che impone una versione bugiarda della storia, in cui la «razza bianca» , europea o nordamericana, ha seminato solo distruzione” ma un invito a comprendere il motivo per cui ancora oggi esiste tanta diffidenza verso l’Occidente.

È innegabile che in India il colonialismo britannico abbia lasciato ferite profonde che ancora oggi faticano a rimarginarsi e che l’imposizione della cultura e dell’economia inglesi abbiano eroso l’anima dell’India soffocandone le sue millenarie tradizioni.

La “Grande Anima” dell’India, Gandhi, sosteneva che: “La civiltà occidentale era una sorta di “malattia” perché portava con sé valori che alienavano l’essere umano dalla propria natura rendendoli schiavi di beni materiali e che la vera civilizzazione, è quella che permette all’uomo di governare se stesso, di seguire i propri valori morali e spirituali senza essere condizionato da desideri e necessità artificiali.”

Emblematica fu la carestia del Bengala nel 1943 che causò la morte di circa tre milioni di persone e non solo a causa di una tragica fatalità, ma per un evento aggravato dalle politiche coloniali e dalla volontà di Winston Churchill che, per sostenere lo sforzo bellico in Europa, deviò le risorse alimentari dall’India ignorando deliberatamente la crisi alimentare in corso. Lo storico Madhusree Mukerjee, nel suo libro “Churchill’s Secret War” documenta come le decisioni politiche prese da Churchill contribuirono significativamente a quella tragedia: “Le scorte di grano venivano esportate mentre la gente moriva di fame. “

La ferita più profonda inferta all’India, fu probabilmente quella del 1947 con la divisione del Paese. Con la fine del dominio britannico, l’India ottenne la tanto agognata indipendenza, ma il subcontinente fu diviso in due Stati nazionali, ovvero l’India, a maggioranza induista ed il Pakistan, a maggioranza musulmana. Questa spartizione, non fu solo una divisione geografica, ma una lacerazione dell’identità culturale e sociale dell’India. Quella linea di confine, tracciata in tutta fretta dall’avvocato britannico Cyril Radcliffe – che non aveva mai messo piede in India prima di allora – separò comunità, famiglie e storie condivise per secoli. Milioni di persone furono costrette a lasciare le loro case, attraversando quei confini, in un clima di caos e violenza. Le tensioni religiose, alimentate da anni di politica del “divide et impera” britannico esplosero in massacri ed atrocità inaudite. Si stima che tra le 500.000 e i 2 milioni di persone persero la vita durante la spartizione. Khushwant Singh, autore di “ Train to Pakistan”ndescrisse quei giorni con dolorosa chiarezza: “Gli amici di una vita si trasformarono in nemici. Villaggi interi furono dati alle fiamme. L’umanità sembrava aver perso la sua anima.”

Un capitolo poco conosciuto in Occidente, riguarda la presenza del cristianesimo nel sud dell’India, già a partire dal I secolo. Queste comunità, secondo la tradizione, furono fondate dall’apostolo Tommaso ed avevano sviluppato una propria identità religiosa integratasi con le tradizioni locali. Con l’arrivo dei portoghesi nel XVI secolo, la situazione cambiò drasticamente. I missionari cattolici, determinati ad imporre il rito latino, perseguitarono i cristiani di San Tommaso, considerandoli eretici per le loro pratiche. Lo storico Stephen Neill nel suo libro “A History of Christianity in India” osserva come: “L’intransigenza portoghese nell’imposizione dell’uniformità religiosa abbia causato delle profonde divisioni tra i cristiani indiani, minandone la ricchezza e la diversità nella fede. ”

L’India ha pagato un prezzo altissimo al “progresso” occidentale ed in nome della modernità, sono state calpestate tradizioni, spiritualità e la sua stessa anima. Persino i cristiani presenti in quel paese, non sono stati risparmiati dalla furia del colonialismo.

In Cina, le guerre dell’oppio ( 1839-42 / 1856-60 ) hanno rappresentato un altro capitolo oscuro dell’intervento occidentale nel continente asiatico. Durante il XVIII e l’inizio del XIX secolo, l’Europa ed in particolare la Gran Bretagna, avevano una forte domanda di prodotti cinesi come tè, porcellana e seta. La Cina, invece, aveva poco interesse per i prodotti europei, creando un deficit commerciale per le potenze occidentali. Per acquistare questi beni, gli europei erano quindi costretti a pagare in argento, causando un significativo deflusso di metalli preziosi dall’Europa verso la Cina. Per riequilibrare quel commercio, la “Compagnia delle Indie Orientali” iniziò a coltivare l’oppio in India per poi contrabbandarlo in Cina. L’introduzione forzata dell’oppio non solo debilitò una larga parte della popolazione, ma minò seriamente anche l’autorità dell’Impero Qing. Il governo, per correre ai ripari, cerco di vietarne il consumo e l’importazione, facendone sequestrare e distruggere grandi quantità che appartenevano ai mercanti britannici. Questo provocò l’ira della Gran Bretagna e fu uno dei fattori scatenanti che portarono allo scoppio del conflitto bellico. La sconfitta della Cina nelle guerre che seguirono, portò a dei “Trattati Iniqui” che le imposero condizioni estremamente gravose: l’apertura di cinque porti al commercio britannico, l’indennizzo economico per l’oppio distrutto e la sua legalizzazione, oltre che alla cessione di Hong Kong. Lo storico Jonathan Spence evidenziò come: “Quelle imposizioni abbiano segnato l’inizio di un secolo di umiliazione per la Cina, alimentando quei sentimenti anti-occidentali che ancora oggi influenzano la politica cinese”.

Oggi, il retaggio di quel colonialismo si riflette in una politica estera assertiva della Cina, nel desiderio di riscattare quel “secolo dell’umiliazione”.

I primi europei ad arrivare in Giappone furono i portoghesi e, nel XVI secolo, vi giunsero i missionari, con l’obiettivo di diffondere il cristianesimo e tra questi, la figura più eminente era sicuramente quella del gesuita spagnolo Francesco Saverio. Inizialmente accolti con curiosità e interesse, riuscirono a convertire numerosi signori feudali e comuni cittadini. Con il tempo, la crescente influenza cristiana iniziò a preoccupare le autorità giapponesi, che vedevano nella religione straniera una minaccia all’ordine sociale e alla sovranità nazionale. Lo storico George Elison, nel suo “Deus Destroyed: The Image of Christianity in Early Modern Japan” osserva come: “La rapida diffusione del cristianesimo destabilizzò le strutture sociali tradizionali del Giappone, portando a conflitti interni e sospetti sulle vere intenzioni degli europei.”

Nel 1614, lo shogunato Tokugawa, attraverso un editto proibì il cristianesimo, dando inizio così alla persecuzione dei missionari stranieri e dei convertiti giapponesi. Le attività dei missionari cristiani percepite come un tentativo di sovversione culturale e politica, contribuirono alla decisione del Giappone di isolarsi dal resto del mondo attraverso la politica del “sakoku” un’ isolamento che durò per più di due secoli, fino all’arrivo delle famigerate “navi nere”. Nel 1853, il commodoro Matthew Perry della Marina degli Stati Uniti arrivò nella baia di Edo, costringendo, più con la forza delle sue navi che con la dialettica diplomatica, il Giappone ad aprirsi al commercio internazionale. Sebbene ciò abbia avviato il periodo di modernizzazione noto come Restaurazione Meiji, lo storico Marius B. Jansen sottolinea come: “L’apertura forzata creò tensioni interne che portarono alla caduta dello shogunato e a conflitti civili.”

Il Giappone, impotente di fronte all’inevitabile, ben presto intraprese un percorso di occidentalizzazione, militarizzazione ed espansione, per il desiderio di essere riconosciuto dall’Occidente come nuova potenza mondiale. Questo percorso culminò nelle guerre contro la Cina e la Russia ed infine, nella partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale.

L’Occidente aveva aperto il Giappone al mondo, ma non aveva previsto che ne avrebbe adottato e perfezionato le sue strategie. La Corea, situata in una zona cruciale tra Cina, Russia e Giappone, è stata spesso terreno di scontro tra le ambizioni imperialiste delle potenze vicine e dell’Occidente.

A partire dalla fine del XIX secolo, la penisola coreana si trovò al centro di rivalità che ne avrebbero segnato tragicamente il suo destino. Nel 1910 il Giappone annesse la Corea, dopo averne già esercitato un controllo sempre più crescente a partire dalla vittoria nella Guerra russo-giapponese del 1905. L’occupazione giapponese, durata fino al 1945, fu caratterizzata da una dura repressione culturale, economica e politica; la lingua coreana fu soppressa nelle scuole, i coreani furono costretti ad adottare nomi giapponesi e la maggior parte delle risorse del paese vennero sfruttate per sostenere l’industrializzazione e lo sforzo bellico giapponese. Lo storico Bruce Cumings scriveva che: “L’occupazione giapponese della Corea, fu uno dei regimi coloniali più brutali del XX secolo, segnato da sfruttamento economico, oppressione culturale e violazioni dei diritti umani. ”

Durante la Seconda Guerra Mondiale, migliaia di coreani furono arruolati forzatamente nell’esercito giapponese o costretti a lavorare nelle fabbriche e nelle miniere. Numerosissime donne coreane furono ridotte in schiave sessuali per le truppe giapponesi, una ferita storica che ancora oggi influenza le relazioni tra la Corea e il Giappone. Con la sconfitta dell’Impero del Sol Levante nel 1945 la Corea sperava di riconquistare la propria indipendenza ma, senza consultare il popolo coreano, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, decisero di dividere la penisola lungo il 38º parallelo, con il Nord sotto influenza sovietica e il Sud sotto quella statunitense. Questa divisione che all’inizio fu pensata come temporanea, divenne rapidamente permanente a causa delle crescenti tensioni della Guerra Fredda. Nel 1950 nel tentativo di riunificare il paese le forze del Nord invasero il Sud. Il conflitto che scaturì tra le due Coree, attirò l’intervento delle potenze mondiali con il Sud sostenuto dagli Stati Uniti ed il Nord sostenuto da Cina ed Unione Sovietica. La Guerra di Corea causò la morte di milioni di persone tra civili e soldati, distruggendo gran parte delle infrastrutture del Paese e si concluse tre anni dopo con un armistizio, ma non con un trattato di pace, lasciando la Corea tecnicamente ancora in uno stato di guerra. Lo storico Charles K. Armstrong osservò come: “La divisione della Corea e la guerra che ne seguì, furono il risultato diretto dell’intervento delle superpotenze, che proiettarono le loro rivalità globali su una nazione che cercava solo l’autodeterminazione.“

La Corea rappresenta il tragico esempio di come le ambizioni delle grandi potenze possano schiacciare le aspirazioni di un popolo, trasformando la sua terra in un campo di battaglie ideologiche.

Il Medio Oriente, crocevia di civiltà, religioni e antiche tradizioni, è stato trasformato in un mosaico spezzato anche qui dalle mani di potenze straniere, che con matite e righelli hanno tracciato linee su mappe senza comprendere la complessità di quel mondo fatto di tribù, clan e legami spirituali. Gli accordi Sykes-Picot del 1916 quel patto segreto tra Gran Bretagna e Francia per spartirsi le spoglie dell’Impero Ottomano, non furono altro che un gioco cinico, in cui popoli interi furono sacrificati sull’altare dell’interesse politico. In quel momento, l’Occidente, cieco e arrogante, disegnò Stati che non avevano alcun radicamento storico, creando terre senza anima, territori artificiali condannati all’eterna divisione.

Così nacquero l’Iraq, la Siria e molti altri Paesi che, privati della propria identità, si sono trovati ad affrontare un’eredità fatta di conflitti settari e violenza politica. La mappa che ne risultò fu un insieme di frontiere tracciate con mani tremanti e cuori freddi, linee che tagliavano tribù e comunità, separando le radici dalle foglie e condannando il giardino della Mezzaluna fertile a bruciare per decenni.

L’Occidente non si è mai fermato a capire, ha preferito credere a ciò che gli faceva comodo, piuttosto che aprirsi alla realtà di quei luoghi. Questo tipo di atteggiamento è stato particolarmente evidente nella tanto delicata questione israelo – palestinese.

Nel 1947 le Nazioni Unite, appena nate dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, votarono la risoluzione 181 dividendo il Mandato britannico della Palestina in due Stati: uno arabo e uno ebraico. La decisione, che mirava a dare una casa agli ebrei dopo l’Olocausto e a risarcirli simbolicamente per le atroci sofferenze subite durante la Shoah, venne accolta con favore dal movimento sionista ma rigettata con forza dalle leadership arabe locali. Da quel momento, piuttosto che provare a costruire un dialogo tra le due popolazioni, le potenze internazionali contribuirono a radicalizzare le posizioni, spalleggiando ora l’una, ora l’altra parte, a seconda dei propri interessi geopolitici. Le guerre che seguirono dal 1948 al 1967, fino ai conflitti più recenti non fecero altro che approfondire le fratture. Il piano dell’ONU, concepito per garantire due Stati che coesistessero pacificamente, divenne la miccia che incendiò un’area già carica di tensioni storiche e culturali. La spartizione che fu proposta non tenne conto della natura frammentata del territorio , né del profondo legame spirituale e culturale che sia gli ebrei che i palestinesi nutrivano per quella terra. Invece di agire da mediatori imparziali, gli attori internazionali alimentarono il conflitto costruendo una narrativa di “buoni” e “cattivi” che contribuì a radicalizzare sempre di più le posizioni. Ancora oggi, il conflitto viene osservato attraverso lenti distorte: per alcuni, Israele rappresenta il baluardo della democrazia in Medio Oriente, mentre per altri è il simbolo dell’oppressione coloniale. L’Occidente continua ancora oggi a guardare a quella terra come ad un palcoscenico sul quale mettere in scena i suoi subdoli giochi di potere. Come scriveva Edward Said nel suo “Orientalismo”: “L’Oriente non è una realtà oggettiva, ma una costruzione dell’Occidente, un luogo di fantasie e pregiudizi che giustificano il dominio e il controllo.”

E così, il Medio Oriente continua a bruciare, incompreso e maltrattato, lasciato da solo a fare i conti con le colpe di un Occidente che, come un apprendista stregone, non è stato capace di domare quei demoni che lui stesso aveva evocato.

La Russia, ponte millenario tra Oriente e Occidente, è stata troppo spesso guardata con il sospetto di chi osserva un vicino diverso e incomprensibile. Come possiamo comprenderla se continuiamo a giudicarla con i nostri schemi mentali si chiedeva Tiziano Terzani?

Non c’è niente di più pericoloso che ridurre un’intera civiltà a un cliché, a un fantasma da cui difendersi. Eppure, è proprio questo che l’Occidente ha fatto per secoli, inchiodando la Russia al ruolo di “altra” un’entità misteriosa e minacciosa, facile da criticare e difficile da capire. Lo storico Richard Pipes evidenziava come la percezione occidentale della Russia fosse da sempre segnata da pregiudizi e incomprensioni, “troppo spesso vista come arretrata o despota, senza riconoscere la complessità della sua evoluzione storica.”

Queste parole ci ricordano quanto sia stato facile per l’Occidente ignorare la profondità di un popolo che ha attraversato secoli di rivoluzioni, sofferenze e resurrezioni. Ma quale arretratezza? Quale dispotismo? Tiziano Terzani diceva che la Russia non la puoi spiegare con le nostre categorie: “ E’ un’anima asiatica imprigionata in un corpo europeo, più incline alla riflessione che all’azione, più vicina alla mistica sofferenza dell’Oriente che alla fredda razionalità dell’Occidente”. Una terra in cui ogni aspro inverno sembra scolpire nell’animo della gente la capacità di sopportare. Grandi scrittori russi come Dostoevskij e Tolstoj hanno riflettuto sull’essenza profonda della Russia, un paese diviso tra l’imitazione dell’Occidente e il recupero delle sue radici spirituali orientali. Dostoevskij, in particolare, lamentava l’influenza corruttrice dell’Occidente sull’anima russa, che vedeva come “separata dal mondo”, non per ignoranza o isolamento, ma per un destino più grande e profondo. Tolstoj parlava dell’Occidente come di un “gigante cieco” incapace di cogliere la semplicità e la purezza di un popolo ancora legato alla terra e alla propria spiritualità. Non è un caso, allora, che gli errori dell’Occidente siano stati così tanti. Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Guerra Fredda, la Russia è stata trattata come un “pericolo” da neutralizzare, senza mai cercare di ascoltare la sua voce, i suoi bisogni, le sue paure. Questa demonizzazione ha raggiunto il suo apice con la guerra in Ucraina, in cui la Russia è stata considerata come la rappresentazione del male assoluto, rendendo impossibile ogni sforzo di comprensione o di negoziazione. La Russia è stata oggetto delle espressioni più sprezzanti e denigratorie: definita “stato canaglia”, “regime del terrore”, “minaccia alla pace mondiale” ed i suoi leader sono stati dipinti come “criminali” ed “assassini”. Tali etichette ripetute incessantemente dai media e dai leaders occidentali, hanno alimentato una narrativa che demonizza l’intero popolo russo, creando un clima di odio e diffidenza che trascende persino le logiche geopolitiche. La censura culturale e la cancellazione dell’identità russa dal panorama artistico, letterario e sportivo europeo sono sintomi di una miopia più profonda, che non riguarda solo il conflitto in sé, ma una visione manichea che non ammette sfumature. È stato più facile imporre sanzioni, armare i confini, tracciare linee di demarcazione, piuttosto che cercare di capire cosa ci fosse dietro a quelle frontiere. Forse, il più grande errore dell’Occidente, è stato proprio quello di non aver mai riconosciuto la Russia come un interlocutore a pieno titolo, ma solo come un avversario da domare ed uno Stato da smembrare e controllare. Una cecità che ha prodotto tensioni e conflitti, lacerando quella possibilità e quella voglia di “riconoscersi” che resta “ l’unica vera via per la pace.”

Ed eccolo qui, l’Occidente, inchiodato di fronte alle sue responsabilità storiche, di fronte alle sue narrazioni, ai suoi mantra sempre più balbettanti. La colonizzazione, mascherata da missione civilizzatrice e con la religione cristiana spesso usata come strumento di penetrazione culturale, si è rivelata essere una spietata caccia alle risorse. Ma se il progresso fosse davvero la forza motrice dietro queste iniziative – mi chiedo – può mai essere imposto? Non dovrebbe, piuttosto, germogliare dall’incontro, dal dialogo sincero e dal rispetto reciproco? Le idee occidentali di progresso e modernità sono state imposte senza alcuna considerazione per le culture locali, senza chiedere se quei popoli le desiderassero davvero. In nome del progresso, sono state calpestate tradizioni millenarie, ignorate sapienze antiche e spezzati equilibri delicati. Come possiamo, allora, ancora negare ciò che la storia ci racconta ? È indispensabile fare i conti con le ombre del passato e non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze inflitte, giustificandole con il mito della civilizzazione. Con quale diritto l’Occidente pretende, ancora oggi, di esportare la sua democrazia e il suo modo di vivere verso culture che hanno storie, valori e identità proprie? L’Occidente ha spesso agito con l’arroganza di chi crede di possedere l’unica verità, imponendo i suoi modelli senza ascoltare e senza comprendere la diversità. Anche la spiritualità orientale, così profonda e millenaria, è stata trasformata in un bene di consumo. Laddove il cristianesimo ha fallito nel colmare il vuoto interiore delle società occidentali, ora si cerca di attingere superficialmente da tradizioni che non si comprendono davvero, piegandole alle esigenze di un mondo che fagocita tutto senza mai saziarsi. Questo è un altro tipo di colonialismo, più sottile ma non meno pericoloso, perché svuota le culture della loro essenza ,riducendole a meri strumenti di benessere. È tempo di fermarsi, di riflettere, di guardarsi dentro. L’incontro tra l’Oriente e l’Occidente non può avvenire attraverso l’imposizione o l’appropriazione, ma attraverso il rispetto, l’umiltà e la volontà di apprendere. Dobbiamo riconoscere i limiti del modello Occidentale di sviluppo e aprire a nuove prospettive, non per prendere, ma per condividere e co-creare un futuro più equo per tutti. Il mondo non ha bisogno di ulteriori conquiste o di esportazioni ideologiche ma ha bisogno di autenticità, di dialogo sincero, di un’umanità che riconosca la propria interconnessione. Come disse Tiziano Terzani: “Non si può capire il mondo se non si capisce che siamo tutti parte di esso, che l’altro è parte di noi.”

È il momento di smettere di guardare con gli occhi dell’arroganza e iniziare a vedere con gli occhi del cuore. Oggi, invece, ogni ponte di dialogo continua a crollare sotto il peso delle narrazioni ideologiche. Le disuguaglianze sociali sono alimentate dalla crescente distanza tra ricchi e poveri e la politica, invece di creare un mondo più giusto, costruisce mostri e nemici, incutendo la paura del “diverso” per distogliere l’attenzione dalla vera causa del malessere: l’avidità. Le persone, alla fine, servono il profitto e ne diventano inconsapevolmente il motore, manipolate quanto basta, da percepire che la causa del loro malessere sia sempre l’altro. Se le guerre atomiche non distruggeranno il mondo, sarà forse solo perché non c’è profitto nel farlo. Le masse, soggiogate dal potere e schiave di sistemi che le opprimono, incapaci di qualsiasi ribellione continueranno ad esistere finché la moltitudine di poveri e affamati non diventerà tale da rendere impossibile ogni controllo. A quel punto, tutto esploderà in una rivoluzione che il mondo non avrebbe mai immaginato di vedere, a meno che, non riusciremo a riconoscere noi stessi nell’altro, nel diverso che vogliamo finalmente comprendere.

Grigorij Andreevic Iandolo





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