Il silenzio del potere il rumore della distrazione.

13 Febbraio 2025 pubblicato in Attualità


C’è una regola non scritta nella politica italiana: il potere si esercita nell’ombra, mentre la gente si distrae con la superficialità della solita retorica. E la storia recente di Osama Njeem Almasri, che il 25 Febbraio verrà discussa con una mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, verso il Ministro della Giustizia, Nordio, lo dimostra. Da un lato, si sbandierano i soliti principi, si proclama la necessità della giustizia e si ergono barricate contro “il male del mondo”. Dall’altro, nel silenzio di un volo di Stato, si risolve una questione con un cavillo restituendo alla Libia un uomo accusato di crimini di guerra e contro l’umanità. Almasri, figura chiave del sistema di sicurezza libico, è stato, infatti, arrestato in Italia, su mandato della Corte Penale Internazionale e sembrava il segnale di un Paese che, oltre a rispettare il diritto internazionale, difende davvero quei valori che ama ripetere ad ogni occasione. Ma poi, nel giro di due giorni, il copione è cambiato. Il generale libico, non poteva essere estradato perché mancava la comunicazione preventiva al Ministero della Giustizia. Un vizio di forma, certo, ma di quelli che, quando si vuole, si risolvono con un paio di firme. Non questa volta. Questa volta l’urgenza era chiudere la faccenda in fretta, senza rischiare di irritare Tripoli. E così, senza clamore, senza polemiche, senza indignazione, Almasri, è stato riaccompagnato a casa su un volo di Stato. Il paradosso è che, se fosse stato un migrante qualunque, l’avrebbero lasciato marcire in un CPR per mesi, in attesa di rimpatrio. Ma questa volta non si trattava di un migrante qualunque. Lui, in Libia, aveva un ruolo, aveva contatti. E certi uomini non si lasciano marcire: si salutano con rispetto e si fanno sparire nel silenzio. L’Italia, infatti, non poteva permettersi di mettere in crisi i suoi rapporti con Tripoli. Troppo fragile l’equilibrio su cui si reggono gli accordi, troppo rischioso compromettere quella rete di intese che garantisce due cose: il contenimento dei flussi migratori e, soprattutto, l’accesso alle risorse energetiche libiche. Non è una novità. L’ENI è in Libia dal 1959 da quando Roma, con il pragmatismo di chi non ha mai smesso di considerare il Mediterraneo, come un bacino di caccia, ha piantato le sue radici nel petrolio e nel gas libico. E così, a gennaio del 2023 è arrivato l’ennesimo accordo: un’intesa storica con la National Oil Corporation (NOC) per lo sviluppo di due giacimenti offshore, indicati come “Struttura A” e “Struttura E” al largo della Libia. Gas, tanto gas, con una produzione stimata di 750 milioni di piedi cubi standard al giorno a partire dal 2026. Ma il contesto è cambiato. Perché oggi la Libia, non è solo un partner energetico, ma una necessità. Dopo l’avvio dell’Operazione speciale in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia, infatti, Roma, si è trovata con il problema di rimpiazzare il gas russo. E se la Russia, per diktat americano, è diventata un Paese, col quale non si possono più fare affari, Tripoli, con tutta la sua instabilità, le sue milizie e le sue accuse di crimini di guerra, è invece un interlocutore perfettamente accettabile. Ci sono alleati con cui si può trattare e nemici con cui non si deve neppure parlare. È questa la logica che guida la politica estera italiana, un riflesso automatico delle decisioni prese altrove. La Russia, infatti, con il suo gas e le sue risorse, è finita sotto embargo perché l’ordine è arrivato da Washington. Niente più affari, niente più contratti, niente più diplomazia: solo sanzioni, condanne morali e armi all’Ucraina , perché così si preserva l’architettura dell’Alleanza Atlantica. Eppure, a poche miglia di mare da Lampedusa, si tratta senza troppi scrupoli con una Libia, che non è uno Stato, ma un mosaico di milizie, signori della guerra e governi paralleli. Là dove le corti internazionali denunciano crimini e torture, Roma, firma accordi e stringe mani perché la geografia e l’interesse energetico non lasciano alternative. Gas, stabilità (quel tanto che basta), ed un freno ai barconi: tutto il resto può attendere. Perché, alla fine, il potere non è questione di principi ma di chi ha la leva più lunga e la memoria più corta. Perché è tutto lì, nella logica di fondo e nella solita retorica, svuotata di ogni sostanza, ma servita con cura in pasto alla gente. E allora, ecco l’altro grande totem, l’ossessione buona per ogni stagione: i migranti , il pericolo da esorcizzare, il feticcio su cui costruire consensi. Così, mentre il governo stringe accordi con uomini di dubbia reputazione per non far partire i barconi, la politica ufficiale continua il suo teatrino. Matteo Salvini, alza la voce contro le ONG contro il burqa, contro un nemico invisibile, che cambia forma a seconda del giorno. Non importa se dietro le quinte si fanno affari con chi quei migranti, li gestisce come merce. L’importante è dare l’impressione di avere il controllo. E la gente ? La gente ormai è abituata. Si scandalizza per qualche ora poi tutto torna normale. Perché in Italia tutto diventa accettabile. Un’indagine, un’accusa, una decisione che in qualsiasi altro Paese, farebbe tremare un governo qui diventa routine. Basta la giusta dose di retorica, l’ennesima polemica costruita ad arte, e la realtà sfuma. Alla fine, quello che conta è restare al potere e difendere lo status quo. Il resto – la giustizia, la coerenza, l’umanità – può sempre essere sacrificato sull’altare della convenienza e con qualche abbaio in TV giusto per colorire la scena e dare all’elettorato la sua dose quotidiana di indignazione prêt-à-porter. Un tempo la politica era fatta di idee, di dibattiti, perfino di scontri accesi. Oggi è un palcoscenico di imitazioni sguaiate, dove anche l’arte oratoria è stata ridotta a versi gutturali. Se il livello del dibattito è questo, non stupiamoci se la cultura politica del Paese si misura in decibel anziché in contenuti. E così si continua, tra una farsa e l’altra, con l’illusione che la vita di chi si sente oppresso possa cambiare se solo non ci fossero più i migranti, se solo il nemico fosse sconfitto. E mentre si combatte questa guerra immaginaria, la realtà scorre inesorabile lasciando dietro di sé l’ennesima occasione persa. E in tutto questo, come se la storia fosse un dettaglio trascurabile, si lascia spazio a paragoni grotteschi. Non l’uomo della strada, non il commentatore improvvisato sui social, ma il Presidente della Repubblica in persona, che con solennità istituzionale ha paragonato la Russia, al Terzo Reich. Un’accusa pesante, un’affermazione da manuale della propaganda di quelle che non cercano di spiegare la realtà, ma di renderla più digeribile per chi deve crederci. Perché il mondo di oggi ha bisogno di schemi semplici: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, come nei film di Hollywood. Ma la storia vera è più complicata, non si piega ai copioni scritti nelle cancellerie d’oltreoceano. La Russia, non è la Germania hitleriana e l’Europa, non è più il baluardo della democrazia.
Ma certe sfumature si perdono facilmente quando il fine non è capire, ma armare il pensiero per un’altra battaglia ideologica. Ma la storia, quella vera, non è mai bianca o nera. È fatta di sfumature, di contraddizioni, di complessità. Lo sanno bene quelli che la storia la studiano e la capiscono, ma non quelli che ne fanno uno strumento di propaganda. Perché in tempi come questi, ciò che conta non è la verità ma la semplificazione, il messaggio chiaro, il nemico su cui scaricare ogni colpa. E così, mentre si riempiono i discorsi di parole altisonanti, mentre si fabbricano nuovi mostri per evitare di guardarsi allo specchio, il gioco si ripete, sempre uguale. Un altro nemico, un’altra guerra, un’altra occasione persa per capire davvero chi siamo e in cosa stiamo trasformando il mondo.

Grigorij Andreevic Iandolo





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