La deriva neofascista in Italia tra paura controllo ed accettazione del potere
24 Gennaio 2025 pubblicato in Attualità

Durante il Covid-19, l’Italia ha scoperto la paura del prossimo. La pandemia ha scoperchiato un vaso di tensioni e contraddizioni già in agguato e oggi, con l’attuale governo, tutto ciò si salda in un racconto che sembra non lasciare spazio all’empatia, figuriamoci all’umanità.
Introduzione
Si dice che la democrazia sia il governo del popolo. Eppure, cosa accade quando il popolo stesso smette di cercare nella politica una reale rappresentanza e si affida a un potere che promette ordine e sicurezza in cambio della libertà? Negli ultimi anni, in un Paese stanco delle incertezze e delle disfunzioni della democrazia, sembra emergere la voglia di una figura forte, qualcuno capace di imporre “disciplina e regole”. Pian piano, la maggior parte della popolazione sembra convinta che la via più breve per risolvere i propri problemi sia l’accettazione di un potere rigido, perfino dittatoriale. Eppure, questa predisposizione non nasce dal nulla. È figlia di una lunga stagione di instabilità politica e sociale, di crisi economiche irrisolte, di problemi che vengono addossati agli altri, spesso agli ultimi, in un individualismo sempre più marcato e cupo , che ha preso decisamente il sopravvento sull’altruismo e la solidarietà. Anno dopo anno, il tessuto sociale si è abituato a pensare solo al proprio tornaconto, senza accorgersi che, alla fine, questo egoismo rende più fragili di fronte a chi offre l’illusione della “protezione” a scapito della libertà. Così, ogni volta che un Parlamento non risponde alle aspettative, si invocano e si accettano leggi più dure, strette sui diritti, controlli sempre più asfissianti. In questo contesto, la “deriva neofascista” non significa necessariamente un ritorno alle stesse forme del passato, ma rappresenta la tentazione di affidarsi a un’autorità che offra stabilità in cambio di libertà, ricorrendo a metodi e retoriche autoritarie.
Covid-19
È stato durante la pandemia che l’Italia ha rivelato il suo volto più cupo. Oltre alle restrizioni – che, in alcuni casi, hanno assunto contorni autoritari – si è diffusa tra la gente una crudeltà latente, quasi compiaciuta. Chi aveva deciso di non vaccinarsi è stato additato come untore, isolato dalla vita sociale, messo ai margini e persino spiato da qualche vicino zelante. Le istituzioni, come spesso accade quando si trovano in difficoltà, hanno contribuito ad avvelenare ancora di più questo clima di follia. Mario Draghi invece di unire il Paese in un momento così delicato, ha preferito dividere i cittadini in “virtuosi” e “irresponsabili”, soffiando sul fuoco di una tensione sociale che ancora oggi fatica a spegnersi. A dimostrazione di queste vere e proprie “fantasie istituzionali ” di Draghi, basti ricordare le sue dichiarazioni più celebri: “Non ti vaccini, ti ammali, contagi, muori” o “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Queste frasi hanno semplificato la complessità della pandemia e alimentato la già profonda divisione tra chi sosteneva le misure governative e chi, invece, le considerava sproporzionate. Il Green Pass, oltre a rivelarsi di dubbia efficacia, ha trasformato l’Italia in un laboratorio di divisione sociale, introducendo regole punitive spesso più ideologiche che scientifiche. Un esempio emblematico è la situazione paradossale che si verificò nei bar, dove chi possedeva il Green Pass poteva sedersi, mentre chi ne era sprovvisto era costretto a consumare in piedi. Così, il cittadino si è ritrovato disposto a diffidare di chiunque, accettando persino l’idea che nello stesso locale ci si potesse “proteggere” dal contagio a seconda della posizione o delle regole in quel momento vigenti, o al numero di dosi di vaccino inoculate.
L’attuale governo, composto da partiti che in passato erano critici, se non apertamente ostili, verso questo approccio, ha invece consolidato la tendenza a far accettare ai cittadini anche l’inaccettabile. Questo vale non solo sul piano interno, ma anche in ambito internazionale, dove si è proseguito nell’allineamento del Paese alle logiche atlantiste di Draghi, senza alcuna riflessione sulle conseguenze economiche e sociali.
Il risultato è quello di un Paese piegato su sé stesso, dove rancore e paura trovano sfogo su chi è considerato “l’altro”: il migrante, il povero, il giovane che dissente, e persino chi semplicemente non si conforma alle regole. I problemi reali – dalla precarietà alle bollette impazzite, dal caro benzina ai prezzi dei beni alimentari alle stelle – vengono messi da parte e sembra più facile dare la colpa al diverso , ai nuovi “stranieri” di turno, così come si faceva una volta, quando il problema erano i meridionali “colpevoli” di rubare il lavoro a quelli che vivevano nel Nord del Paese. Intanto, si tagliano i fondi per i servizi, ma si rafforzano le misure di controllo, si chiedono sacrifici ai cittadini, ma si alimenta la guerra in Ucraina. È la legge del più forte, e chi resta indifeso si ritrova sempre più ai margini della società.
Zone Rosse
Emblematica è l’evoluzione delle famigerate “zone rosse”: dal Covid a oggi, abbiamo visto nascere provvedimenti simili a Milano, Firenze e Bologna, teoricamente pensati per migliorare la sicurezza ma in pratica utili a spostare il problema soltanto di pochi metri, allontanando dalle stazioni ferroviarie o dai centri storici chi è percepito non solo come socialmente pericoloso, ma anche indecoroso. A Milano, si è arrivati persino ad allontanare alcune persone incensurate, la cui unica “colpa” era quella di sostare in prossimità della Stazione Centrale. E così, un vigile urbano, su base largamente discrezionale, diventa arbitro di chi può restare e chi deve andare, in un crescendo di piccoli soprusi che, alla lunga, ledono i diritti fondamentali dei cittadini. Le cause – povertà, emarginazione, degrado – restano lì, ancora più isolate dallo sguardo di chi non vuole vedere. Allo stesso modo, provvedimenti come il divieto di fumo all’aperto colpiscono gesti quotidiani per dare l’illusione di una città “pulita”, mentre i veri responsabili dell’inquinamento restano impuniti. Ci ritroviamo a vivere in un luogo sempre più “ordinato” ma sempre meno libero. Un esempio ulteriore è l’ultima modifica al Codice della Strada, dove si vieta di guidare perfino sotto l’effetto di farmaci di uso comune. Solo dopo le proteste di alcuni cittadini e medici , si è pensato di istituire un tavolo tecnico. Questa logica del “prima punisco, poi ragiono” è davvero imbarazzante e crea incertezza e ansia, mentre il potere dell’irrazionalità si rafforza ancora una volta, imponendo regole sempre più invasive, illogiche e repressive. Non stupisce, allora, che questi episodi di stampo autoritario creino una frattura nella società e nelle piazze. Da una parte, c’è chi invoca ancora più controlli, più repressione, più telecamere; dall’altra, c’è chi vede in tutto ciò una deriva fondata su razzismo e paura, un fascismo che non si dichiara ma che serpeggia, pronto a emergere all’occorrenza.
Il caso Ramy Elgaml
Ramy, deceduto durante un inseguimento con i carabinieri, è l’emblema di questa situazione. La sua morte ha scatenato una violenta reazione online, con centinaia di commenti intrisi di odio. Dai video diffusi, registrati da dispositivi privati o telecamere di sicurezza, emerge che ci sono stati degli impatti tra l’auto di servizio e lo scooter su cui viaggiava Ramy. Tra le frasi controverse pronunciate dai militari, spiccano espressioni che, dopo la caduta finale, lasciano intendere una volontà deliberata di farlo cadere. Inoltre, sono in corso indagini per presunto depistaggio, con l’accusa a due militari di aver costretto un testimone a cancellare un video dell’incidente. Va anche evidenziato il fatto che si trattava di un semplice controllo stradale, un’operazione di routine ben diversa da un posto di blocco, che invece prevede barriere fisiche e rappresenta una misura più restrittiva. È una distinzione fondamentale per comprendere il contesto dell’accaduto. Non c’è dubbio che i Carabinieri, stessero svolgendo il proprio lavoro, ma questo non giustifica i rischi legati a un inseguimento in un ambiente urbano. Uno scooter in fuga rappresenta un pericolo non solo per chi si trova alla guida, ma anche per gli agenti che operano e soprattutto, per i passanti, che possono trovarsi esposti a situazioni imprevedibili e potenzialmente pericolose. Si sarebbero potute adottare strategie alternative? Perché non utilizzare le telecamere cittadine per identificare i sospettati o tentare di fermarli in zone meno trafficate e a livello operativo più sicure? Il sindacato dei carabinieri ha dichiarato che i militari hanno agito correttamente e non potevano fare altrimenti, giustificando le frasi pronunciate come frutto dei momenti concitati. Tuttavia, questa posizione non regge : un errore del genere svilisce la professionalità che una forza di polizia dovrebbe sempre mantenere. Se non si riesce a gestire lo stress di tali situazioni, allora c’è probabilmente qualcosa che non funziona nell’addestramento degli operatori. Inoltre, l’uso della “retorica degli stipendi bassi” è un alibi abusato da decenni e adottati ogni volta che si verificano fatti del genere. La morte di Ramy e le decine di commenti duri e privi di appello per un ragazzo di appena 19 anni , sono la prova della pericolosa deriva xenofoba e razzista di questo paese.
La violenza verbale: l’odio sui social
Il dibattito sulla violenza si concentra spesso esclusivamente sugli episodi fisici che avvengono nelle piazze: scontri, denunce di aggressioni, richieste di impunità per gli operatori di polizia, tuttavia, esiste una violenza più insidiosa e pervasiva, ovvero quella verbale. Sul caso di Ramy, e su altri temi del quotidiano, la violenza si riversa contro chiunque appartenga a una minoranza o su chiunque non si pieghi alla narrazione della massa. Politici, giornalisti e rappresentanti di vari governi spesso contribuiscono, con un linguaggio violento e divisivo, a consolidare un clima di intolleranza e odio. Ecco alcune delle frasi che testimoniano questa deriva:
“Guidare una moto, non è come cavalcare un cammello.”
“Altri mille Ramy così facciamo un po’ di pulizia.”
“Per fortuna si è schiantato su un palo e non addosso a qualche passante.”
“Si vede com’era un bravo ragazzo.”
“Frutto della “tolleranza” dei buonisti. Certe cose non succedono in Paesi civili.”
“Mi si spezza il cuore vedere l’auto dei carabinieri incidentata.”
“Piombo dopo 200 metri.”
Queste citazioni, purtroppo, non sono un fatto isolato. In una società come quella italiana che si ritiene “perbene” ci si dovrebbe interrogare profondamente sulla direzione che sta prendendo questo Paese. Una riflessione sulla violenza verbale, sarebbe doverosa, perché prepara il terreno all’esclusione normalizzando l’odio e la xenofobia. In un contesto in cui i social network amplificano questi aspetti, la responsabilità collettiva non può più essere ignorata. Politiche e leggi devono affrontare non solo gli episodi di violenza fisica, ma anche questo incessante diluvio di parole che avvelena il tessuto sociale. L’inclusione non può ridursi a uno sterile slogan. Bisogna far capire a queste persone che l’integrazione non consiste soltanto nel pretendere che gli altri accettino la nostra cultura e le nostre “libertà”, ma richiede anche la volontà di comprendere e riconoscere nell’altro un essere umano e non sbeffeggiarlo, ridicolizzarlo e ghettizzarlo.
Uso della forza e delle armi
Un altro tristissimo episodio si è verificato la notte di Capodanno del 2024 a Villa Verucchio, in provincia di Rimini. Un egiziano di 23 anni, molto probabilmente affetto da disturbi psichici ed armato di coltello ha aggredito alcuni passanti. Il comandante della stazione dei Carabinieri, è intervenuto esplodendo dodici colpi di pistola, cinque dei quali si sono rivelati fatali per l’aggressore. Se da un lato l’intenzione di garantire la sicurezza pubblica è assolutamente comprensibile, dall’altro il numero elevato di proiettili, ha suscitato molte polemiche sulla proporzionalità della reazione e sul rischio di colpire i passanti. Un caso simile a quello di Villa Verrucchio, si era già verificato presso la stazione di Verona Porta Nuova, lì un richiedente asilo maliano di 26 anni ha aggredito un Agente della Polfer, con un coltello. L’agente, per difendersi, ha esploso tre colpi di pistola, uno dei quali mortale. Anche in questo caso, c’è da chiedersi: come garantire la sicurezza dei cittadini senza ricorrere all’uso di armi da fuoco in aree urbane densamente popolate? Questi episodi, seppur distinti, portano alla stessa riflessione su come bilanciare la tutela della collettività con interventi meno estremi. Evitare tragedie simili è essenziale, ma la soluzione non può essere certo quella di affondare i barconi o chiudersi all’immigrazione. La questione è complessa e richiede un approccio più umano e responsabile da parte di tutta la società civile. Un primo passo verso il non uccidere è l’uso alternativo di strumenti di dissuasione come i Taser. Presentato nel 2014 come uno strumento di difesa non letale per gestire situazioni critiche, il Taser, è di fatto assente o sottoutilizzato in gran parte d’Italia, pochi operatori sono formati e lo strumento non è disponibile per tutti. È possibile che siamo di fronte all’ennesimo spot dello Stato Italiano? Dove sono finiti i Taser? Finché non si renderanno concrete le alternative non letali, ogni intervento rischierà di trasformarsi in un atto estremo, con conseguenze fatali, drammi sociali e gravi ricadute di coscienza per chi preme il grilletto. La realtà delle Forze dell’Ordine, è indubbiamente complessa, ma c’è la sensazione diffusa che certi fatti accadano con maggiore frequenza o trovino una sorta di “copertura” quando al governo prevalgono determinate forze politiche. Questo stride con gli appelli all’inclusione e solleva dubbi sul diverso trattamento mediatico riservato agli episodi in cui sono coinvolte persone di origine straniera. Basti pensare a Willy Monteiro Duarte, il ragazzo brutalmente ucciso a Colleferro, o a Mamadi Tunkara, la Guardia Giurata di un supermercato di Bergamo, morto in circostanze violente. Entrambi i casi, per ragioni diverse, non hanno ricevuto la stessa attenzione o la stessa enfasi da parte del governo o di una certa opinione pubblica. Forse perché, in quei contesti, le vittime erano giovani di colore o lavoratori stranieri, e ciò ha reso la vicenda meno “spendibile” per alcuni settori politici o meno interessante per chi si mobilita solo quando l’aggressore è uno straniero considerato “delinquente”. Questa disparità di trattamento pone interrogativi sulla coerenza di un Paese che, da un lato, si proclama inclusivo e garante della sicurezza di tutti, ma dall’altro offre narrazioni molto diverse a seconda di chi siano le vittime o gli aggressori. Tale disparità non giova né alle forze dell’ordine, già impegnate in un lavoro difficile e sotto organico, né alla credibilità delle istituzioni. Tantomeno favorisce la coesione del tessuto sociale, che continua a essere indebolito dalla sfiducia e dalle paure. Evidentemente, i fatti del G7 di Genova non hanno insegnato nulla.
DDL Sicurezza, Codice della Strada e controllo sociale
Un altro aspetto da non sottovalutare, è rappresentato dalle misure introdotte dal DDL Sicurezza 2025 e dal nuovo Codice della Strada presentati con toni solenni, baluardo di un ordine da ristabilire ad ogni costo, un ritorno alla disciplina ed alla sicurezza promossa da questo governo. Tuttavia, dietro questa facciata di rigore si cela un approccio superficiale e semplificato che dimostra, più che una volontà di giustizia, una tendenza a esercitare controllo sociale attraverso atti repressivi, pene più severe e tolleranza zero. Un esempio evidente è l’applicazione delle sanzioni per chi guida dopo aver assunto sostanze potenzialmente compromettenti. Si è enfatizzato il pugno duro contro chi guida sotto l’effetto di droghe o alcol, ma senza fare distinzioni. Così, anche chi assume farmaci di uso comune, come la Tachipirina rischia di essere sanzionato. La soluzione non è stata quella di ripensare la norma, ma istituire tavoli tecnici – già creati nel 2021 e mai convocati – per creare deroghe e scappatoie, dimostrando un’applicazione delle regole che non tiene conto delle implicazioni pratiche. Questo approccio non è solo superficiale, ma riflette una gestione che enfatizza il rigore solo verso chi non ha strumenti per difendersi mentre si cercano correttivi per limitare le conseguenze su chi è più tutelato. L’accento posto sulla repressione delle manifestazioni e sull’inasprimento delle pene per chi disturba l’ordine pubblico rivela una chiara volontà di esercitare il controllo sociale a ogni costo. Non si tratta di risolvere i problemi alla radice , ma di soffocare il dissenso e garantire la sopravvivenza di uno status quo che ignora le vere cause del disagio sociale . In questo contesto, la sicurezza diventa poco più di uno slogan , uno strumento per dividere e reprimere, piuttosto che una reale garanzia di protezione per la collettività.
Una Contraddizione Spirituale
A rendere tutto ancor più paradossale è l’antica tradizione cattolica che permea buona parte della cultura italiana. Ci si aspetterebbe che un Paese formatosi attorno a valori di solidarietà e compassione – che nel Vangelo sono sintetizzati nella regola d’oro “ama il prossimo tuo come te stesso” – si opponga con fermezza a ogni forma di violenza, razzismo o autoritarismo. Eppure, la storia italiana ci mostra come anche in epoche passate, gli ambienti ecclesiastici abbiano convissuto con regimi oppressivi, a volte tacendo o persino collaborando per ragioni di convenienza politica ,venendo meno ad ogni principio evangelico professato. Il risultato è un grande squilibrio morale: da un lato, gran parte della popolazione si professa cattolica o comunque “spirituale”, dall’altro, si assiste a fenomeni di odio, emarginazione e discriminazione sistematica, quasi fossero compatibili con i principi di carità cristiana. La contraddizione è evidente, ma questo fenomeno non riguarda soltanto i cattolici: lo stesso sguardo miope e discriminatorio si ritrova in certe frange di altre confessioni o comunità spirituali. In sostanza, l’etichetta della persona spirituale non garantisce immunità dall’odio o dall’indifferenza verso gli ultimi. Anzi quando la religione diventa più una tradizione di facciata che un reale impegno etico, si crea terreno fertile per giustificare, o almeno non condannare, derive autoritarie e xenofobe. Se l’Italia vuole davvero riconciliarsi con i propri valori più autentici – inclusi quelli spirituali – deve allora domandarsi come sia possibile che all’ombra delle chiese, delle processioni, di riti religiosi cristiani e non, di ogni comunità impregnata di una certa spiritualità, possano ancora annidarsi forme di neofascismo e di disprezzo verso il diverso. È una domanda che interpella sia la coscienza collettiva, sia la concreta volontà delle istituzioni religiose e civili di costruire un Paese più empatico, rispettoso e coerente con i principi di fratellanza e giustizia sociale che spesso sono da tutti proclamate a parole in quelle inutili appelli per la Pace che di pace non ne portano mai.
Conclusioni
L’Italia sembra oggi uno specchio distorto in cui l’umanità riflette il suo lato più ambiguo. Ci riempiamo la bocca di grandi parole: libertà, democrazia, giustizia, spiritualità . Ma cosa significano quando, sotto il peso della paura, accettiamo che vengano svuotate di senso? Non ci sono veri colpevoli, direbbe qualcuno. Ma è proprio questa la più grande ipocrisia: giustificare tutto e tutti, in nome di un bene superiore che non è mai stato definito. Questa Nazione, che si proclama democratica e solidale, sembra pronta a sacrificare entrambi i principi sull’altare di un’illusoria sicurezza. Non c’è empatia verso l’altro, ma un sottile compiacimento nel controllare, nell’escludere, nel punire. Ed è questa ambiguità che permette al potere di perpetuarsi, di mantenere il ciclo perverso di paura e repressione. Ci siamo abituati a una retorica che divide il mondo in due: noi e loro. I virtuosi e gli irresponsabili. I buoni e i cattivi. Ma è in questo manicheismo che si annida la vera tragedia: la volontà di non guardare mai oltre le apparenze, di non riconoscere che, dall’altra parte, ci sono solo altri esseri umani. Ci indigniamo per i commenti d’odio sui social, ma non ci chiediamo chi siamo diventati quando ci affrettiamo a giustificare ogni sopruso in nome della “legalità.” Il problema non è solo l’autoritarismo dei governi o la superficialità delle leggi. Il problema siamo noi, che accettiamo tutto questo, che troviamo giustificazioni sempre più sottili per non vedere, per non agire. Se l’Italia vuole davvero riconciliarsi con la sua anima, deve affrontare il cuore della questione: chi vogliamo essere? Un popolo che si affida ciecamente a chi promette protezione in cambio di libertà, o una comunità capace di trasformare la paura in empatia, l’odio in comprensione?
Non sarà una scorciatoia a salvarci. Non lo saranno le leggi dure, né i muri. Servirà qualcosa di molto più impegnativo: il coraggio di guardarci allo specchio e di riconoscere che, forse, la deriva neofascista non è nelle leggi che tolleriamo, ma nel silenzio complice con cui lasciamo che ci definiscano.
Grigorji Andreevic Iandolo