Una riflessione sul giorno della memoria

27 Gennaio 2025 pubblicato in Attualità


C’è un’immagine che ci dovrebbe tormentare ogni volta che pensiamo al Giorno della Memoria: quella del vento che porta con sé le voci e le risate dei bambini bruciati nei forni crematori. Bambini che erano il futuro di un mondo e che il nazismo ha ridotto in cenere. Una polvere che ha attraversato la storia e che non si è mai fermata davvero ed oggi soffia sui campi profughi e lungo i muri che separano i popoli. È lo stesso vento che spazza via i bambini di Gaza, del Donbass ed anche di quelli al confine tra Messico e Stati Uniti, dove le deportazioni – celebrate con l’eufemismo di “espulsioni di irregolari” – non colpiscono solo i criminali, ma distruggono famiglie e strappano all’innocenza migliaia di piccoli condannandoli ad un’esistenza fatta di barriere, gabbie e paura. È come se l’umanità avesse deciso che, in fondo, quei bambini non contano davvero più nulla.
Ogni 27 gennaio, il mondo commemora la Shoah. Si ascolteranno i soliti discorsi solenni, si deporranno le solite corone di fiori, si griderà e si spergiurerà al “Mai più”. Ma il nazismo è bene dirlo non spuntò dal nulla ed ignorare le sue radici, non fare i conti con il passato, significa aprire la porta a quelle nuove forme di oppressione e di criminalizzazione di popoli che oggi appaiono troppo simili a quelli del passato. L’antisemitismo, che ha condotto all’orrore dei campi di sterminio, affonda le sue radici in una storia di odio e discriminazione che ha attraversato i secoli. Già nell’Impero Romano, gli ebrei venivano perseguitati per la loro fede ed accusati di non riconoscere la divinità dell’imperatore e di non assimilarsi. Quella stessa accusa di mancata “assimilazione” ripresa nei secoli successivi, si tradusse in stermini e ghettizzazioni. Ad Alessandria d’Egitto, nel 38 d.C. un pogrom devastante portò all’uccisione di centinaia di ebrei e alla distruzione delle loro case. Nel Medioevo il mondo cristiano plasmò l’immagine degli ebrei come i nemici naturali della fede. Dall’accusa di “deicidio” – la colpa, mai provata, di aver crocifisso Cristo – al mito infame degli “omicidi rituali”, secondo il quale, i bambini cristiani venivano uccisi per riti sacri ebraici, si costruì quella narrativa che rese gli ebrei, il bersaglio perfetto per ogni colpa. Nel 1348 mentre la peste nera decimava le popolazioni, l’Europa, cercava un colpevole. E chi se non gli Ebrei? L’accusa che venne loro mossa, fu quella di avvelenare i pozzi, scatenando nuovi massacri in tutto il continente ed in Germania, Francia e Spagna, furono sterminate intere comunità. L’odio si trasformò in sistema, consolidando l’idea che gli ebrei fossero esseri inferiori indegni di partecipare alla vita civile. Nemmeno il Rinascimento, spesso idealizzato come epoca di progresso, segnò una svolta per loro. Le leggi discriminatorie li relegavano nei ghetti, separati dal resto della popolazione da muri e divieti sempre più oscuri. L’espulsione dalla Spagna nel 1492 voluta dai Re Cattolici, come un atto di “purificazione religiosa” costrinse migliaia di ebrei a scegliere tra la conversione o l’esilio, ma anche chi si convertiva in modo forzato, continuava a vivere sotto la minaccia dell’Inquisizione. L’odio, che ormai era diventato in tutta Europa, la norma, si perpetuò nei secoli successivi preparandosi a farsi carne nel Novecento. Quando Hitler, salì al potere, trovò nel vecchio continente il terreno più fertile fatto di radicati pregiudizi ed istituzioni compiacenti. Pochi ebbero il coraggio di opporsi e le deportazioni, iniziarono nell’indifferenza generale e sotto gli occhi di tutti. Del resto, è sempre stato così: quando la politica non sa rispondere alle crisi, inventa un nemico. Il capro espiatorio diventa la soluzione facile, il mezzo per placare le paure di molti ed alimentare il silenzio di tutti. Eppure, la tragedia della Shoah non si esaurisce nel passato. Dopo la guerra, l’Europa, si trovò di fronte ad una realtà insostenibile: come poteva ignorare ciò che la storia aveva rivelato? Come potevano gli ebrei tornare a vivere accanto a coloro che li avevano denunciati, o fidarsi di un continente che li aveva traditi? La risposta, per molti, fu la nascita dello Stato di Israele, un rifugio per chi era sopravvissuto all’orrore e non poteva più credere nelle promesse di un’Europa, ormai sfigurata non solo dalle macerie ma anche nello spirito. Ben presto quel rifugio si trasformò in un’altra tragedia: quello del popolo palestinese, rinchiuso in un fazzoletto di terra, in campi profughi tra muri di separazione e terre occupate. La promessa di “due stati per due popoli” si è rivelata una bugia, una retorica che copre oppressioni quotidiane. E quando le politiche della destra israeliana, hanno iniziato a rispecchiare ciò che gli ebrei avevano combattuto per secoli, alcune delle menti più lucide all’interno della comunità ebraica, hanno avuto il coraggio di dire basta. Hannah Arendt, Noam Chomsky, Ilan Pappé, Amira Hass e molti altri hanno denunciato l’ingiustizia immaginando un futuro di pace e convivenza tra Ebrei e Pelestinesi. Ma le loro voci, si perdono nel rumore delle bombe, nell’indifferenza di chi preferisce non vedere. E allora, cosa resta del Giorno della Memoria? Resta la retorica vuota, le celebrazioni di poche ore, mentre i bambini continuano a morire e ad essere trasportati nel vento. Resta un’ipocrisia collettiva che preferisce ricordare un giorno all’anno e dimenticare i restanti 364.
Ed anche la memoria è stanca di essere usata come scusa, sterile e che non costa niente. Perché ricordare non costa nulla e non richiede coraggio, né sacrificio. È facile deporre una corona, fare un discorso che scivola via con l’indifferenza del giorno dopo. È davvero comodo trasformare il passato in un rituale vuoto, una scadenza annuale per lavarsi la coscienza, senza mai guardare davvero il presente. E noi? Noi siamo peggio: commemoriamo, ci commuoviamo e poi torniamo alle nostre vite, lasciando che il vento continui a portare via le voci e le risate di bambini innocenti. Diciamo “Mai più” mentre accettiamo nuove stragi e nuove ingiustizie, troppo comodi per ammettere che siamo ancora lì, nello stesso punto. Forse ci piace ricordare, perché agire significherebbe guardarsi allo specchio e vedere che il vero nemico non è mai stato altrove, ma dentro di noi. Forse.

Grigorji Andreevic Iandolo





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