I dazi della paura
25 Aprile 2025 pubblicato in Economia

Certe volte basta uno scossone in Borsa per far tremare tutti, non perché la finanza sia davvero il cuore pulsante della società, ma perché ormai è diventata il suo barometro, il simbolo stesso di un mondo che misura il proprio stato di salute in punti percentuali, in spread, in titoli al rialzo o al ribasso. E così, quando i mercati calano, tutti si agitano, come se il mondo intero stesse sprofondando con loro, come se dietro a quei numeri ci fosse davvero qualcosa di reale. In queste settimane, nel solito smarrimento dell’Europa e nel vociare scomposto delle polemiche americane, la caduta delle Borse non è stata solo un incidente di percorso: è stata la manifestazione di una crisi più profonda, una crepa in un sistema che da tempo vacilla e che ora, in modo sempre più evidente, cerca di rimanere in piedi con la forza bruta dei dazi. Una crisi che parte sempre dall’altra parte dell’oceano, da quella guerra commerciale che gli Stati Uniti, hanno dichiarato al mondo – ed in particolare alla Cina – nel nome dell’“America First” una frase che nasconde più paura che forza, più debolezza che orgoglio, perché quando un impero inizia a proteggersi con dogane e minacce, quando si arrocca dietro ai dazi per cristallizzare e rinvigorire il suo potere, vuol dire che questo potere, forse l’ha già perso. Un mondo, quello americano, che ha sempre parlato di libertà di mercato mentre impone condizioni unilaterali, che detta le regole del gioco ma si rifiuta di rispettarle quando non gli convengono più e che oggi, nel tentativo maldestro di riequilibrare la bilancia commerciale, gioca con il fuoco. Perché questa guerra economica non è affatto una guerra minore. Basta osservare quanto velocemente le Borse crollino, quanto denaro evapori in poche ore, per rendersi conto che questa guerra, è forse la più subdola e devastante di tutte, capace non solo di piegare le economie ma di mettere in ginocchio miliardi di persone. Eppure, i dazi, come detto, non sono che l’ennesimo tentativo di tenere in piedi un sistema che da tempo mostra le sue crepe, la prosecuzione di quella stessa logica che aveva già prodotto i mutui subprime e più tardi, la gestione della pandemia. Ogni volta, con nomi e giustificazioni diverse, l’obiettivo è stato sempre lo stesso: raddrizzare un’economia malata senza mai metterne in discussione le fondamenta. I subprime, fecero leva sul bisogno più umano, quello di avere una casa, il Covid mise a nudo un’altra verità, ovvero l’incapacità dell’uomo moderno di fermarsi. E così, dopo qualche piccola esitazione , si scelse una sola strada – quella dei vaccini subito, senza se e senza ma – perché bisognava riaprire, consumare, produrre, come se tutto il resto fosse secondario. Anche lì, come oggi con i dazi, non si trattava di salvare vite, ma di salvare il mercato, i margini e il profitto di pochi. E ora, con la recessione che incombe e la crescita che si affievolisce, eccoli di nuovo, i dazi, presentati come cura ma destinati, come sempre, a colpire i più deboli. Perché queste misure, che siano mutui facili, iniezioni forzate o barriere doganali, non sono mai pensate per il bene comune. Sono strumenti di controllo, leve per proteggere interessi privati. E dietro ogni mossa, anche la più nobile sulla carta, c’è sempre lo stesso motore: il profitto. Perché è chiaro che ogni crisi, ogni scossa al sistema capitalistico si regge sull’inganno dei bisogni indotti, sull’idea che avere una casa, un’auto, una vacanza, una carriera, un’identità persino, sia un dovere, un traguardo, un segno di successo. Abbiamo imparato a desiderare ciò che altri hanno deciso per noi, a sentire come nostri dei bisogni che non ci appartenevano. E alla fine, l’avere ha preso il posto dell’essere e l’essere è scomparso, sepolto sotto rate, pubblicità, status symbol ed una paura costante di perdere quello che si ha, anche quando questo è assolutamente superfluo. E quando la macchina viene rimessa in moto, si riparte, sempre con prezzi più alti, qualità più bassa, prodotti impacchettati meglio ma pensati peggio. Anche il cibo diventa un affare e la fame un’altra occasione per guadagnare. Ma questa, forse, è già un’altra storia, una storia che riguarda non solo l’alimentazione, ma la coscienza e l’umanità. In tutto questo, l’Europa, è sempre più in confusione. Dal dopoguerra in poi ha smesso di pensare con la propria testa, scegliendo senza esitazioni la strada del benessere facile, del consumo come valore, dell’America, come modello di “salvezza.” Al posto di sviluppare una visione autonoma, ha adottato quella altrui, trasformando la cultura in marketing, la democrazia in finanza, l’identità in etichetta. Come il Giappone, come la Corea del Sud, anche il vecchio continente, ha pagato il prezzo dell’obbedienza. E oggi, mentre il commercio diventa guerra, ci si accorge – forse troppo tardi – che sarebbe stato necessario pensare di più, ascoltare di più, cercare di più. Ma tutto questo affonda le radici molto più lontano, perché, quando a partire dal 1989 il sistema socialista cominciò a crollare, nell’Europa orientale, non arrivò la libertà, ma un’illusione abbagliante, fatta più di aspettative che di certezze, destinata a svanire nel vuoto di un mondo per molti sconosciuto. Milioni di persone cresciute in un sistema basato sul senso collettivo si ritrovarono improvvisamente, senza punti di riferimento, travolte dalla promessa di un “nuovo mondo” fatto di democrazia, benessere e consumo. Quella promessa, però, non era altro che uno dei frutti della propaganda occidentale, costruita per vincere la Guerra Fredda non tanto sui fronti, quanto nei cuori e nei bisogni della gente. L’Europa, non li accolse ma li assorbì e trasformò ogni Paese, in un mercato, ogni popolo in un’occasione geopolitica. Nessuno si chiese, se quel rapido abbraccio non fosse, in realtà, un’espropriazione di coscienze e quando la nebbia si diradò, lo choc fu profondo: non era l’inizio della libertà, ma la fine di una certezza, sostituita da un’illusione luccicante ma solitaria, dove ciascuno avrebbe dovuto salvarsi da solo, perché le dinamiche del capitalismo, non avrebbero guardato in faccia nessuno. E così, oggi, i dazi non sono che il segno evidente di un’implosione. Gli Stati Uniti, incapaci di accettare un mondo che non gira più attorno a loro rispondono, con le stesse vecchie armi, ma il danno è fatto. Il dollaro perde terreno, i BRICS si riorganizzano, nuovi alleati si parlano fuori dai vecchi schemi, non per fare guerra, ma per smettere di subirla, non per alzare muri, ma per scrollarsi di dosso le catene. La finanza invece continuerà a galleggiare trovando nuovi algoritmi, nuove bolle, nuovi trucchi e speculazioni. Ma a soffrire, saranno sempre le persone comuni, quelle che non decidono ma che subiscono, quelle che vedranno i prezzi salire, i salari scendere sempre di più e le prospettive di una vita serena ridursi ad una forzata sopportazione e che, come spesso accade, accetteranno in silenzio, perché “così va il mondo”, perché “è il mercato”, perché è stato insegnato loro che non esiste alternativa. E mentre l’Europa, corre a Washington a discutere condizioni e proroghe, dopo il crollo verticale delle borse mondiali, i dazi vengono congelati ma la guerra commerciale con la Cina, è tutt’altro che evitata in quanto per gli Stati Uniti d’America, il Paese del Dragone, è il nuovo nemico della loro egemonia. Il futuro? Sarà difficile, sarà contraddittorio, sarà imperfetto. Ma il primo passo è smettere di credere che il capitalismo sia eterno, che l’America, sia la norma, che la finanza sia neutra. Non lo è mai stata. Forse questa crisi, come tutte le crisi vere, è un’occasione per capire, per cercare un cambiamento, per tornare ad immaginare un altro modo di stare al mondo. E se questo mondo dovesse crollare, che almeno lo faccia con dignità. Con qualcuno che, tra le rovine, abbia ancora il coraggio di pensare.
Grigorij Andreevic Iandolo